Lucia Maltese
Dottore in Scienze e Tecnologie Agrarie
È molto probabile, che in questo periodo dell’anno, durante le nostre passeggiate serali in uno dei giardini di Misiliscemi, si venga investiti da un profumo inebriante di gelsomino (“gersumino”). Questa pianta generosa con una fioritura profumata, legata all’infanzia e ai ricordi di noi siciliani ha origini lontane dalla nostra terra, infatti proviene dalla Penisola araba, dal Sud della Persia e dal Corno d’Africa. Successivamente nei secoli le popolazioni Arabe, durante le loro dominazioni, l’hanno diffusa nel Mediterraneo, portandola in Sicilia ed in Spagna. Per questo spesso è chiamata anche gelsomino catalogno, napoletano e siciliano.
Il Jasminum grandiflorum è formato da numerosi getti che si dipartono dalla base e che tendono a formare una massa cespugliosa. Nella nostra regione, con un clima in prevalenza temperato-caldo, può arrivare a misurare molti metri di altezza. È un arbusto sempreverde che nelle nostre zone tende a spogliarsi durante il periodo invernale a causa degli abbassamenti di temperatura. I rami sono verdi e portano foglie opposte e lunghe da 5 a 12 cm, imparipennate con 5 a 11 foglioline. La fioritura comincia in primavera inoltrata e prosegue anche fino a dicembre, con il picco di massima nella stagione estiva. I fiori bianchi con venature rosate all’esterno, hanno una profumazione delicata e intensa.
La pianta di gelsomino non poteva mancare nelle vecchie case di campagna, perché oltre ad abbellire e profumare gli ambienti, insieme al geranio siciliano dal tipico fiore di un colore rosso porpora che contrastava con il candido bianco, allontanavano le zanzare e gli scarafaggi.
I fiori posso avere diversi usi: con i boccioli, raccolti la sera e messi in ammollo in acqua per una notte si ottiene la “Scursunera”, una granita rinfrescante importata dagli Arabi preparata con gelsomino e cannella, che insieme a quella di limone era l’offerta che la padrona di casa proponeva agli ospiti nelle calde giornate estive.
Nella Sicilia degli anni ’30 del Novecento c’erano i venditori di “Sponse di gelsomino”. Queste, erano realizzate con i boccioli di fiori di gelsomino che pazientemente venivano infilati negli steli essiccati di carota selvatica e riposti al buio per circa una notte. Una volta sbocciati i fiori creavano un semplice mazzetto che veniva generalmente regalato alla fidanzata durante le “passiate na’ chiazza”.
La coltivazione del gelsomino per finalità industriali fu introdotta in Sicilia nel 1928 per compensare la perdita economica avuta con la riduzione della vendita del vino da taglio. Questa coltivazione era diffusa sulla costa tirrenica della Sicilia, dove esistevano parecchie distillerie per la lavorazione primaria del gelsomino e di altre essenze. Il prodotto semilavorato veniva inviato principalmente in Francia, per l’industria dei profumi.
Le donne e i bambini, erano addetti alla raccolta dei boccioli dei fiori, dai quali veniva estratto l’olio essenziale. Il mestiere delle raccoglitrici di gelsomino era un lavoro duro, avveniva durante tutta la notte fino alle prime luci dell’alba; le gelsominaie lavoravano imperterrite per riempire la cesta prima che il sole potesse danneggiare il raccolto.
Le raccoglitrici, sottopagate e obbligate dal bisogno di guadagnare per sfamare la famiglia, si prestavano a tali condizioni di sfruttamento. Ma in quel contesto storico della Sicilia, seppur con enorme difficoltà, le gelsominaie di Milazzo seppero alzare la testa e con enorme coraggio nel 1946 si ribellarono, dando vita ad una storica protesta e ad uno sciopero che venne preso d’esempio per innescare altrettante rivolte in diversi centri dell’isola, facendo emergere anche in altri contesti, una serie di realtà di lavoro nero femminile sparso in tutta la Sicilia.
Grazie a quella storica battaglia portata avanti da queste donne che rivendicavano i loro diritti, il salario delle raccoglitrici riuscì a raddoppiare. Fu il primo di una lunga serie di scioperi che periodicamente si protrassero fino agli anni sessanta e che riuscirono ad avere l’attenzione della stampa nazionale ed estera.
Lu Gesumino Gesuminu, tu mi ammaschi; E nun viju lu pirchì! Stari in menzu di sti raschi, Nu lu nego, ch’è un gran-chi. Ma li rosi, e l’amaranti C’aju vistu unni si tù; Un’onuri datu a tanti, E’ finutu, ‘un vali chiù. Cu ssa boria, e ssa livata, Tu ti cridi quasi un Re? Ma nun passa ssa jurnata, Ca finisci cu l’olè. Supra donni lu sò fastu, Nuddu mai fundari po; Forsi v’amanu, ma a tastu; Oggi sì, dumani nò. Vidi ‘nterra spampinatu Ddu galofaru, ch’è ddà? Chistu ajeri fu aduratu, Comu nautra deità. Ora ‘un tocca chiù cantusciu; Si ci spii, dici: oimè! Pirchì sugnu afflittu e musciu; Pietà pri mia ‘un ei nn’è! Benchì elettu ntra li ciuri, Gesiminu, ora sì tù; Forsi avrai pri successuri Li chiù tinti, chi ci su, Chi unni regna l’incostanza, E’ cuccagna; e sai pirchì? Pirchì ogn’unu avi spiranza, Oggi nò, dumani sì. Fini. Giovanni Meli (Palermo, 1740-1815)