I matrimoni del passato nelle contrade di Misiliscemi, così come in tanti luoghi della Sicilia, avevano ben poco a che fare con la libertà dell’amore, almeno per quanto riguardava la scelta del consorte. Infatti, la possibilità che un ragazzo e una ragazza potessero decidere autonomamente e liberamente di sposarsi perché innamorati, era quasi inesistente. Dai racconti di diverse anziane abbiamo la visione di un periodo storico che va dagli inizi del ‘900 del secolo scorso, fino al secondo dopoguerra, voci di donne che ci parlano di esperienze personali e familiari, vissute nei piccoli centri immersi nella vita rurale. Grazie a loro, sappiamo che nelle contrade, i matrimoni erano degli eventi a cui partecipava tutta la piccola comunità del luogo, che insieme ai parenti invitati, si univa alla gioia di un momento importante per una o più famiglie del posto.
Si può dire che le unioni erano quasi sempre combinate dai padri dei due sposi che, per amicizia o per opportunità, decidevano che i propri figli sarebbero stati perfetti per una vita insieme. I contadini o i braccianti con minori possibilità economiche si fermavano a questo, ma chi ne aveva di maggiori, in particolare i borgesi – piccoli e medi imprenditori agricoli – non avrebbero acconsentito ad un matrimonio che non considerasse anche la “dote” che i due futuri sposi avrebbero “portato”. La dote, comune in moltissime culture fin dall’antichità, ai tempi dei Romani era costituita dai beni materiali che la donna apportava al matrimonio al momento delle nozze e che andavano ad unirsi al patrimonio dello sposo per contribuire al sostentamento della famiglia. La “rote”, così chiamata nel dialetto di queste zone e di cui parliamo nello specifico per il territorio di Misiliscemi, era quella che il figlio e la figlia ricevevano dalle rispettive famiglie al momento delle nozze. Se questa era più o meno dello stesso valore, allora la cosa si poteva combinare, ma succedeva talvolta che il valore non fosse al pari e dunque il matrimonio non si poteva fare. Per fortuna c’erano anche casi in cui la famiglia non era così pretenziosa e dunque si andava oltre, in ogni caso, più che d’amore, si trattava di affari. Infatti, nei casi in cui la cosa andava in porto, prima delle nozze veniva compilato il “contratto matrimoniale”, che con minuzia di particolari elencava tutti i beni dei futuri coniugi, con tanto di valore monetario a lato e ne dettava anche le regole – secondo le leggi esistenti – per la “gestione” in caso di scioglimento delle nozze o morte di uno dei due coniugi.
Così, ad esempio, per un matrimonio avvenuto a Pietretagliate alla fine degli anni ’30, prima che questo fosse celebrato, venne stilata, sotto Vittorio Emanuele III, Re d’Italia e Imperatore d’Etiopia, una “Costituzione di dote” con data 25 aprile 1938, Anno XVI dell’Era Fascista. A redigerlo il Notaio Ignazio Gandolfo di Trapani, che riporta diversi articoli e riguardo alla dote della ragazza stila due elenchi: “Numero diciannove abiti, uno spolverino, tre paia di lenzuoli, dodici federe per cuscini, tre coperte, un coltrone, due servizi da tavola di cui uno per sei e l’altro per dodici, una colonnina ed un comò. Il valore degli oggetti descritti in questo primo elenco ascende a complessive lire cinquemilacinquecento”. E, ancora: “Numero tre anelli d’oro del complessivo valore di lire trecento, numero quattro paia di orecchini del complessivo valore di lire quattrocento, un letto matrimoniale in rame del valore di lire ottocento e della lana per il valore di lire mille”. Continuando a leggere, vediamo che una parte del contratto riguarda la tutela dei beni della sposa in caso di scioglimento del matrimonio, ipotizzato anche se a quel tempo in Italia non esisteva una legge sul divorzio, ma evidentemente era contemplata anche questa possibilità. Riferendosi agli elenchi dice: “…malgrado la stima restano di esclusiva proprietà della sposa ed il futuro sposo […] quindi, come semplice detentore, nei possibili casi di restituzione, sarà tenuto a consegnarli in natura nel numero e nelle condizioni in cui l’uso l’avrà ridotti. […] Quelli invece indicati nel secondo elenco passano in proprietà dello sposo […] che, al momento dello scioglimento del matrimonio, dovrà, come si obbliga, restituirli alla sposa o suoi, dovendo supplire in denaro, secondo la stima sopra fattane, gli oggetti mancanti senza rispondere delle deteriorazioni causate dall’uso”. Il contratto continua dicendo che, a garanzia degli oggetti descritti, la futura sposa accetta un’ipoteca costituita dal futuro sposo su un appezzamento di terreno sito in Contrada Salinagrande, nel territorio di Trapani.
Dunque, più che alla compatibilità sentimentale dei futuri sposi, si pensava per prima cosa all’aspetto economico, cercando possibili combinazioni tra famiglie della stessa contrada, se ce n’erano di papabili, oppure spostandosi nelle contrade limitrofe, ma anche nelle vicine Paceco e Nubia, luoghi dai quali, tra l’altro, molti avi degli odierni abitanti di Misiliscemi provengono. Chi stava bene economicamente, perché magari proprietario di molti terreni, cercava opportunità matrimoniali per i figli anche fuori da questi confini; unioni con famiglie di Trapani, Marsala e oltre. Ma poveri o benestanti, prima delle nozze si provvedeva comunque alla preparazione della “rote” – il corredo della sposa – e dell’abito “bianco”, cose di cui si occupava la madre, aiutata da qualche parente, se in grado di cucire, o per le quali si ricorreva ad una sarta, che si recava a domicilio per realizzare quanto richiesto; naturalmente, maggiori erano le possibilità economiche, più ricca era la “rote”. In seguito, tutto ciò che era stato cucito e confezionato per l’occasione, insieme ai regali che il fidanzato e la suocera avevano fatto alla ragazza, gli accessori e i gioielli che la famiglia aveva acquistato per la figlia, venivano “mostrati” a parenti e vicini una ventina di giorni prima del matrimonio. Si trattava di un evento importantissimo, perché era l’occasione nella quale in molti arrivavano per vedere quella che veniva chiamata “a robba esposta”, ovvero, ogni singolo “pezzo” che componeva il corredo. In una stanza, che veniva sgomberata di tutto, si disponevano diversi tavoli usati per mostrare lenzuola, coperte, asciugamani, servizi da tavola, camice da notte, biancheria intima e quant’altro, tutto disposto con grande cura, come si fosse all’interno di un negozio. Alle pareti, sulle quali per l’occasione si attaccavano diversi chiodi, si “appizzavano” le grucce che mostravano le vestaglie, gli abiti “giornalieri” e quello per la “prima sciuta”, spolverini, cappottini… e ancora, un angolo era dedicato a cappelli, borsette e gioielli. Il grado di benessere della famiglia era dato dal numero di “addrizzi” che si vedevano esposti, questi, erano costituiti da un set completo, realizzato utilizzando la stessa tipologia di stoffa, come seta, raso o cotone. Ogni set comprendeva ad esempio, una coperta, una tovaglia da tavola completa, una camicia da notte e la biancheria intima. Più “addrizzi” la famiglia era stata in grado di donare alla figlia, più la gente aveva cognizione delle possibilità economiche del padre. Dunque, le chiacchiere di quei giorni, come possiamo ben immaginare, ruotavano attorno all’argomento, con commenti e apprezzamenti di vario genere. La domanda più diffusa era, “U viristi quant’addrizzi purtau?” e se i set erano solo un paio, la risposta, piena di commiserazione, era: “Mischina, sulu du addrizzi!”, come a dispiacersi, ma anche a sottolineare che la famiglia purtroppo non aveva molte disponibilità economiche.
In occasione della visita sopra descritta, gli sposi ricevevano i regali, al primo posto fra tutti i doni fatti dai parenti c’erano le rosoliere, set di vetro o cristallo, composti da una bottiglia accoppiata a piccoli bicchieri usati per servire il rosolio o altri liquori. Come racconta la signora Rosa, convolata a nozze con Salvatore nel 1949: “Ci hanno regalato 17 rosoliere, tutti i parenti lo stesso regalo, cosa ce ne dovevamo fare? Nessuno chiedeva se avevamo bisogno, ad esempio, di piatti o sedie, solo rosoliere! Dopo il matrimonio le ho distribuite fra amiche e familiari”. Altri regali usuali potevano essere un servizio da caffé o da tè, dei piccoli panieri di vetro da usare come soprammobili, una lampada in ceramica con il paralume in vetro o anche una statuetta decorata a mano, raffigurante la Madonna di Trapani.
Celebrato il matrimonio nella chiesa della contrada in cui viveva la sposa, o spostandosi in una vicina se lì non era presente una chiesa adatta, si passava ai festeggiamenti, che a quel tempo avevano la durata di due giorni e si tenevano a casa delle famiglie degli sposi. Per la foto ufficiale del matrimonio, se la nuova coppia aveva disponibilità economica, si recava a Trapani, presso uno degli studi dell’epoca, il giorno stesso delle nozze, oppure nei giorni successivi. Alcune foto mostrano coppie che indossano abiti eleganti, altre un abbigliamento semplice e spesso, chi non aveva potuto fare la foto lo stesso giorno del matrimonio, si rivestiva con gli abiti della cerimonia. Solo in seguito, verso la fine degli anni ’50, inizi anni ’60, qualcuno acquistando una macchina fotografica, ha immortalato momenti all’interno della chiesa o attimi dei festeggiamenti. Dai racconti, nessuno conserva foto degli sposi con la famiglia realizzate nel giorno delle nozze.
Come da tradizione, il primo giorno era caratterizzato dalla “mangiata” a casa della “zita”, gli invitati, oltre ai familiari erano gli zii e i cugini degli sposi, che si deliziavano con il menù tipico di quelle occasioni: il brodo, spesso cucinato utilizzando un intero vitello. Il secondo giorno, era dedicato alla “mangiata” a casa dello “zito” e lì solitamente si gustava lo stufato. Per la preparazione di tutto il pranzo, si chiamava una donna che “sapeva cucinare”, una sorta di cuoca autodidatta che si recava nella casa dove si sarebbe tenuta la festa, impiegando anche tutta la notte precedente il pranzo per preparare il necessario. Nelle contrade, alcuni ricordano la za Saridda di Marausa, o anche la za Maria di Pietretagliate, donna di spiccato intuito imprenditoriale, tanto da effettuare veri e propri servizi di catering completi.
Dopo il pranzo si passava alla “festa da ballo”, in quella che era la stanza più grande, si “cunzava u macararu”, cioè, si allestiva la parete di fondo con uno specchio adornato da palme e davanti si disponevano le sedie per gli sposi, più una per la “spalla”, solitamente la sorella o la la cognata già sposate, che dovevano sedere accanto alla sposa. Lungo il restante perimetro della stanza venivano collocate tutte le altre sedie per i parenti e visto che le famiglie erano molto numerose, talvolta si era costretti a creare anche due file. Per l’animazione venivano chiamati i “sunatura”, gruppi musicali composti da pochi elementi che si spostavano per le contrade, in base alla chiamata ricevuta. A partire dal secondo dopoguerra, famosissimo nella zona che oggi è Misiliscemi, era il gruppo composto da Franceschino Di Stefano al violino, Salvatore Renda detto Turiddu Renna alla chitarra e Giuseppe Ferrante detto zu Peppe “riàulu”, che suonava sia il clarinetto che la batteria. Questa, veniva chiamata “azzibande”, storpiatura del nome derivata dall’americano jazz band. Il gruppo si riuniva per le prove presso la falegnameria di Franceschino a Salinagrande ed era molto richiesto, eseguiva pezzi musicali tratti dalle melodie di quei tempi e anche musiche e balli “nuovi” importati dall’estero, soprattutto dall’America. Ma proponeva anche una danza francese in voga a quell’epoca, “La danse du spirou”, detta “Spirù”, che imitava i movimenti dello scoiattolo. Sulle note dei “sunatura” si dava inizio alle danze: il ballo fra gli sposi prima, seguito da quello con i rispettivi genitori e solo dopo potevano ballare anche tutti gli altri invitati, ma per i balli fra cugini, si sarebbe dovuto chiedere il permesso al padre. Finiti i festeggiamenti gli sposi non andavano in viaggio di nozze, se non in rari casi e verso la fine degli anni ’50, recandosi al massimo a Palermo con il treno.
La nuova coppia prendeva direttamente possesso di una casa rurale, spesso costruita su un lotto, parte di un appezzamento di terreno più ampio, che il padre dello sposo aveva acquistato e che donava ai figli man mano che questi si sposavano. Lì, si edificava la casa con annesso giardino sul retro, che avrebbe ospitato in parte l’orto da coltivare o qualche animale domestico. Possiamo concludere che i matrimoni nelle contrade rurali di un tempo erano, nella loro semplicità, dei momenti di riunione e gioia condivisa da tutti. Unioni che, in moltissimi casi sono state felici, prosperose e durature, nonostante la modalità priva di libertà con cui erano nati. Famiglia dopo “nuova“ famiglia, si è stati partecipi dello sviluppo di quelle piccole comunità che nel tempo si sono pian piano allargate e che dopo generazioni, hanno contribuito insieme agli antenati, a dar vita a quello che oggi è Misiliscemi, un comune con più di 8.500 abitanti.
UNA SARTA ECCELLENTE PER LE CONTRADE DI MISILISCEMI NEGLI ANNI ’40
Le sarte di quel periodo, dedite principalmente alla realizzazione dei corredi e degli abiti da sposa, erano presenti in più contrade nel territorio di Misiliscemi. Quando venivano chiamate per realizzare “a rote” e dovevano recarsi presso qualche famiglia che viveva in una zona distante dalla propria abitazione, molto spesso si fermavano per un periodo a casa della futura sposa. Se invece avevano parenti in quel luogo, restavano ospiti da loro per tutto il tempo necessario alla conclusione del lavoro. Queste donne, erano anche coloro che insegnavano l’arte del taglio e del cucito a gruppi di ragazze che, come si diceva, “andavano a mastra”, spesso anche per cinque o sei anni di seguito, finché non erano in grado di portare avanti da sé il mestiere e mettersi in proprio.
Una di queste sarte, ai tempi abitante di Pietretagliate, è Rosa Di Vita, nata nel 1926 e oggi novantaseienne. Rosa, era a sua volta andata “a mastra” già a partire dall’età di otto anni, presso una sarta vicina di casa, la za Ninetta Lombardo. Ancora bambina, si alzava all’alba per accudire i fratelli più piccoli e aiutare in casa, come usualmente tutte le bambine facevano a quel tempo e dopo si recava tutti i giorni a prendere “lezioni” di sartoria.
Quando Ninetta si sposa e si trasferisce a Marausa, la mamma di Rosa, per non interrompere il percorso della figlia e darle l’opportunità di avere un mestiere per il futuro, la accompagna a piedi tutte le mattine a Marausa, torna a casa e la va a riprendere la sera. A quel tempo non esistevano strade asfaltate e praticabili, quindi da Pietretagliate arrivavano a Palma, ma lì non era ancora non era stato costruito il ponte che passa sul torrente Misiliscemi, erano dunque costrette ad attraversarlo camminando tra i sassi e l’acqua, soprattutto nel periodo invernale. A soli tredici anni e mezzo, Rosa è già una sarta in grado di realizzare corredi, creare modelli e confezionare abiti, tanto che inizia la sua attività in autonomia.
Col tempo, com’è ovvio, diventa anche lei la “maestra“ di altre ragazze della contrada e dei dintorni e le sue “lezioni” si svolgono in una delle stanze di casa dei genitori, con i quali ancora vive. Come qualche sua allieva di quei tempi – oggi ultraottantenne – racconta: “Cucivamo nella stanza che faceva anche da stalla, tra stoffe, forbici, modelli e il mulo in un angolo, con la testa calata sulla mangiatoia. Ricordo anche che dopo la guerra, la ‘politica’ mandava nelle nostre zone delle insegnanti da Trapani, soprattutto per la scuola taglio, che serviva per imparare a realizzare i modelli”. Rosa era bravissima e perciò molto richiesta, oltre che a Pietretagliate, si recava infatti, con alcune allieve al seguito, anche nelle vicine contrade di Palma e Salinagrande, ma veniva molto spesso chiamata per le spose di Nubia. Una bellissima foto ricordo di gruppo del 1947, ce la mostra con un modello di carta tra le mani, insieme alle sue allieve di quel periodo.
Rosa si sposa poi nel 1949 con Giuseppe Lombardo, un sarto d’uomo di Paceco e lì si trasferisce, iniziando a collaborare con lui e, diventando nel tempo, specializzata nella realizzazione di asole fatte a mano con il cordoncino. Alla morte del marito, nel 1990 ritorna alla sua professione originaria di sarta da donna, che porta avanti fino al 2006. Chissà quante spose di Misiliscemi degli anni ’40 avranno indossato le creazioni di Rosa e quanti corredi da lei creati, oggi saranno conservati nei cassetti degli abitanti di tante contrade. Preziosa eredità ricevuta da genitori o dai nonni, che molto probabilmente oggi non ci sono più e custodita con cura come loro ricordo, magari insieme ad una rosoliera riposta nella credenza.