Associare la morte alla festa potrebbe sembrare un controsenso, per la Chiesa la data del 2 novembre non è indicata come tale, infatti essa celebra come festività il giorno prima, quello di Tutti i Santi. Ma in Sicilia la Festa dei morti che porta a ricordare i proprio cari scomparsi, è da secoli tra le più sentite e care alla tradizione popolare, forse perché – come racconta oggi la quasi centenaria Rosa – in passato non si comprendeva il significato teologico di quella festa cristiana dedicata ai santi, invece i defunti erano stati “vicini” e molto “concreti”. A Misilicemi, così come in moltissimi luoghi dell’isola, tra le più belle usanze di questa giornata ce n’è una che vede coinvolti i più piccoli. Tantissime generazioni di bambini hanno vissuto con trepidazione l’attesa del risveglio la mattina del 2 novembre quando sarebbero corsi a cercare quel “panareddru” (paniere) pieno di doni e leccornie che i morti, tornati in visita durante la notte precedente, avevano portato e nascosto in giro per la casa. E questa ricerca non avveniva soltanto presso la propria casa, ma anche in quelle dei nonni o degli zii se quel giorno, come spesso avveniva e tutt’ora in molte famiglie ancora avviene, ci si riuniva per condividere il pranzo.
Naturalmente nulla di soprannaturale in questa usanza, ovviamente i panieri venivano preparati dagli adulti e certamente l’effetto che si voleva produrre era quello di rendere le figure dei morti amorevoli e affettuose agli occhi dei più piccoli. Dunque un bellissimo modo per creare un senso di continuità familiare con defunti conosciuti, ma anche con gli avi sconosciuti, sottolineando così un legame che continuava ad esistere nel corso della storia.
Nelle contrade di Misiliscemi, un tempo abitate da un altissimo numero di famiglie di agricoltori e contadini che lavoravano presso le tenute dei ricchi proprietari terrieri, i morti portavano ai bambini i doni della terra e talvolta anche dei giocattoli improvvisati. Come ricorda Rosa, bambina negli anni Trenta del ‘900, la mattina del 2 novembre lei e i suoi fratelli appena fuori dal letto iniziavano la ricerca andando a guardare ad esempio dietro e porte di casa o sotto il letto. “I miei genitori prendevano un piatto e lo riempivano con qualche noce, delle mandorle tostate, un paio di castagne, un mandarino raccolto in giardino e a volte pensavano anche ad un giocattolo, ad esempio per me creavano una bambola di pezza usando un po’ di stoffa ripiegata e poi legata con un nastro. Qui non c’erano negozi e possibilità, ma quando mio padre con il tempo cominciò a recarsi a Trapani con il ‘carrozzino’, iniziò a comprare dei piccoli pupi di zucchero che spesso avevano la forma di un cavallino per la nostra felicità, perché trovavamo qualcosa di dolce in mezzo al resto”.
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I bambini dovevano pensare che quei regali arrivassero dagli avi, anche se crescendo avrebbero capito che così non era, un po’ come succede per i doni portati da Babbo Natale o dalla Befana. A tal proposito Rosa ricorda un aneddoto accadutole da piccola: “Io e i miei fratelli avevamo capito che erano i nostri genitori a preparare il piatto e quindi ogni anno diventavamo sempre più curiosi di scoprire cosa avremmo ricevuto. Così successe che una volta, sapendo che papà si era recato a Trapani poco prima della festa, al suo ritorno andammo a frugare nel cassetto del ‘carrozzino’ per vedere se anche quell’anno avremmo trovato un pupo di zucchero per i Morti e lì trovammo i cavallini. Nostro padre ci prese sul fatto e si arrabbiò, disse che visto che avevamo messo ‘in dubbio i morti’, da quel momento in poi niente più pupi di zucchero per la festa. E così fu!”. Storie avvenute quasi cent’anni fa e che oggi fanno sorridere, ma che forse aiutano a comprendere quanto le famiglie rurali di un tempo tenessero a questa tradizione.
Nel corso del tempo, intorno agli anni ’50-’60, i “panareddri” si arricchirono di frutta di martorana, gli squisiti dolcetti di marzapane siciliani che tante famiglie a Misiliscemi preparano appositamente in vista della Festa dei Morti e che insieme ai pupi di zucchero fanno parte della tradizione culinaria legata a questa ricorrenza. Ancora oggi molte persone amano realizzare la martorana anche come esperienza da condividere con i propri bambini perché simile a un gioco visto che l’impasto di mandorla viene poi utilizzato (usando le apposite forme) per realizzare i frutti che saranno in seguito dipinti con i colori alimentari.
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A partire dagli anni ’70 poi, quando ormai le contrade di Misiliscemi avevano visto le piccole botteghe nate un tempo riempire gli scaffali di prodotti industriali o ci si poteva spostare a Trapani e Paceco con facilità e lì fare acquisti, i bambini iniziarono a trovare nei panieri – oltre a noci, castagne, frutta martorana e qualche agrume – anche caramelle, cioccolatini, biscotti, merendine, dei giocattoli e in quelli nascosti a casa dei nonni anche qualche banconota da 1000 lire. In definitiva un momento immancabile che aveva la capacità di riempire di gioia tutti i bimbi impegnati in questa mini caccia al tesoro casalinga, ma anche i grandi che con cura si erano dedicati alla preparazione del piccolo tesoro da far scovare.
La Festa dei Morti era – ed ancora oggi in molte famiglie è – anche un momento conviviale, perché dopo la visita mattutina al cimitero ci si riuniva con i propri familiari, fratelli e sorelle a casa dei genitori e lì si pranzava tutti insieme con figli e nipoti. Il ricordo che molti hanno di quel giorno vissuto da bambini è certamente bello e positivo, assolutamente non legato alla tristezza che si genera quando si pensa a chi ci ha lasciati. Un momento di festa organizzato forse pensando di affievolire la malinconia del ricordo, restando uniti attorno a quella tavola imbandita che un tempo aveva visto tra gli occupanti anche coloro che non c’erano più. Tutto sommato, forse quel “panareddru” pieno di doni serviva simbolicamente a consolare i vivi, perché quel gesto con il quale si facevano rivivere i propri cari probabilmente li spingeva a pensare che nemmeno i morti a loro volta li avevano dimenticati e che quel legame forte che esisteva un tempo non sarebbe mai finito anche se questi non c’erano più.
LA FESTA DEI MORTI DAL PUNTO DI VISTA STORICO
Baldo Palermo
La commemorazione dei defunti, nel periodo dell’anno in cui viene ora celebrata, risale alla fine del X secolo, quando fu collocata proprio il giorno dopo la festa di Ognissanti, festività, quest’ultima, che prima ricorreva il 13 maggio e che era stata spostata alla data attuale nella prima metà dell’VIII secolo. Molto interessante è il periodo dell’anno in cui è collocata questa festa. Infatti, in una società quasi esclusivamente agricola, come era la nostra fino a qualche decennio fa, la festa dei morti, così come tutte le festività religiose, era strettamente collegata ai momenti cruciali del calendario agricolo e novembre era il mese nel quale, dopo aver faticato a forza di braccia per affondare il vomere dell’aratro nella profondità della terra e aver quindi preparato il terreno, i nostri contadini, trepidanti, affidavano al buio e alle viscere della terra i semi destinati alla produzione.
Erano i semi preziosi delle piene e dorate spighe falciate tra i canti e il sudore dei luminosi mesi estivi, risparmiate dalle potenti e vorticose mole di pietra del mulino, non usati quindi per saziare la fame dei nostri progenitori con vastedd(r)i e lunicedd(r)i profumate e nutrienti, cotte in forni di pietra, ma conservati con cura, come bene prezioso, e destinati a marcire e morire nelle tenebre della terra per poi, si sperava, germinare e moltiplicarsi nei solchi bagnati di sudore. Semi legati all’incessante ciclo di morte e vita. Non è strano perciò associare quei semi destinati al buio e al freddo della terra ai propri cari defunti, ritornati, anch’essi, alla notte eterna dopo il loro breve giorno; e non era strano chiedere ai morti di proteggere quei semi piantati, come loro, nei solchi della terra, di vegliare il loro morire e di assicurare che la morte dei semi si trasformasse in vita e in “crescente pane” sotto il caldo sole. Non era strano nemmeno, quindi, scorgere nel destino dei semi quello dei cari defunti e il proprio destino futuro: leggere nel perenne ciclo della natura la propria sorte, la speranza di poter germogliare e rinascere, un giorno, come un seme affidato alla terra. Questo, forse, è uno dei motivi per cui tale ricorrenza si celebra a novembre, in ogni caso questi legami tra semi e morti sono molto evidenti e sono stati ampiamente studiati.
Lo stesso gesto di offrire del cibo e dei doni a dei bambini durante questa ricorrenza, molto probabilmente, è ciò che rimane di quelle offerte e quelle libagioni che una volta i vivi offrivano ai morti per onorarli, dare loro nutrimento, chiedere protezione, assicurandosi anche che rispettassero il limite frapposto tra i vivi e i morti, per mantenere il kosmos, l’ordine, e scongiurare il kaos. E che a godere dell’offerta siano i bambini, quelli che, in un certo senso, non sono ancora uomini, e quindi vivono come sospesi tra il già e il non ancora, sembra avvalorare il fatto che i veri destinatari delle offerte sono, o erano, i defunti, i morti.