Cristina Martinico
A Misiliscemi, così come in molti luoghi della Sicilia, dopo la devozione a Maria la più diffusa è certamente quella a San Giuseppe, dimostrata anche dai tanti uomini e donne che portano il nome del santo. San Giuseppe è il protettore della famiglia, dei falegnami, dei poveri e degli orfani. La Chiesa lo festeggia il 19 marzo come Sposo della Beata Vergine Maria e Misiliscemi lo ha scelto come santo patrono del nuovo Comune.
La tradizione più importante legata a San Giuseppe e diffusa in diversi luoghi dell’isola è quella denominata Cena di San Giuseppe, nella zona occidentale della Sicilia conosciuta come “L’ammitu di San Giuseppe“, ovvero l’invito di San Giuseppe. Una manifestazione di fede e devozione del passato oggi completamente scomparsa sul territorio, ma portata avanti da tante famiglie con fervente devozione fino alla fine degli anni Ottanta circa. A Misiliscemi l’ammitu consisteva nell’invitare a pranzo in casa propria tre persone bisognose in occasione della festa del santo – come fosse simbolicamente la Sacra Famiglia – e per loro allestire un ricchissimo banchetto.
LA DEA DEMETRA ALLE ORIGINI DEL RITO
Le origini antichissime da cui deriva l’ammitu vedono gli albori tra il sacro e il profano e sono legate al mito della dea Demetra (Cerere per i romani) divinità del Pantheon greco che presiedeva la natura, i raccolti e le messi, colei che donò al genere umano la conoscenza delle tecniche agricole come la semina, l’aratura e la mietitura. Il suo nome è legato a quello della figlia Persefone e al mito del suo rapimento da parte di Ade. In questo mito, che racconta di Persefone costretta a risiedere nell’Ade per alcuni mesi e libera di poter vivere con la madre Demetra per il resto dell’anno, si legge la spiegazione dell’alternarsi delle stagioni, l’immagine del seme che viene nascosto nella fredda e nuda terra, il rifiorire della vita in primavera e l’abbondanza delle messi mature estive. Il culto di Demetra in Sicilia è stato accertato in svariate località tra cui Selinunte, Agrigento, Enna e Siracusa. Gli antichi abitanti dell’isola le dedicarono santuari, costruirono altari votivi e istituirono diverse feste che si svolgevano nei periodi legati alla semina e alla maturazione del grano. Con il passare dei secoli e il susseguirsi delle dominazioni, le feste e gli altari preparati per offrire doni in ringraziamento a Demetra e auspicare fertilità e abbondanza non furono mai abbandonati, perché le popolazioni erano strettamente legate alla vita agricola. Con il mutare del tempo, degli usi e con il passaggio all’era cristiana, gli altari ricchi di doni, pietanze e frutti furono trasformati in vere e proprie mense alle quali le famiglie benestanti invitavano i bisognosi, offrendo loro un ricco pranzo in segno di carità. Così la Chiesa – come per altre feste di origini pagane difficili da far abbandonare ai fedeli – stabilì come solennità dedicata a San Giuseppe una data vicinissima al 21 marzo, giorno dell’equinozio di primavera, simbolo del risveglio della natura che si prepara per la semina, la maturazione dei frutti e il raccolto. È lì che ad un certo punto vediamo nascere l’ammitu di San Giuseppe, trasmesso per generazioni e divenuto parte della fede popolare siciliana in tante zone dell’isola inclusa Misiliscemi.
L’AMMITU NELLA TRADIZIONE DEL PASSATO DI MISILISCEMI
L’ammitu di San Giuseppe un tempo vedeva i burgisi, ma anche famiglie di condizioni economiche meno agiate, invitare i tre poveri – che come già detto erano simbolicamente la personificazione della Sacra Famiglia – per offrire loro un lauto pranzo. Un banchetto sempre preparato in segno di ringraziamento a San Giuseppe, solitamente per una grazia ricevuta in seguito ad un voto fatto, perciò anche se agli occhi di molti questa tradizione potrebbe apparire come un’occasione di “spreco” di cibo, in realtà era il modo per manifestare il proprio immenso riconoscimento nei confronti del santo e della sua infinita benevolenza. Alle origini del gesto c’era la volontà di ricambiare la grazia mettendo a disposizione ciò che si poteva, facendo a propria volta un atto di carità verso chi si trovava nel bisogno.
Per raccontare in modo dettagliato l’ammitu e con la certezza di riportare una realtà coerente, ci facciamo guidare dall’esperienza di chi da sempre lo ha vissuto in prima persona, come le sorelle Pia e Terina Adamo di Palma, oggi 85 e 76 anni, nella cui famiglia l’ammitu è stato conosciuto personalmente e lo si è tramandato per generazioni. La madre Tuzza, negli anni Cinquanta e Sessanta veniva “ingaggiata” tutti gli anni da diverse famiglie della contrada in occasione di questo importante evento, perché esperta nella “sistemazione” della stanza dove si sarebbe svolto il pranzo, capace di fornire le corrette indicazioni ed aiutare a preparare le pietanze necessarie. Tuzza aveva ereditato questo amore per l’ammitu dalla madre Giuseppa, originaria di Pietretagliate che già agli inizi del Novecento veniva regolarmente contattata per svolgere lo stesso compito. Ed è grazie alla loro devozione familiare che ancora oggi, dopo un secolo, abbiamo la possibilità di rievocare questa sentita manifestazione della fede popolare legata alla figura di San Giuseppe e conoscere da vicino le modalità con cui la si esprimeva a Misiliscemi.
Pia stessa dopo la guarigione da una leucemia nel 2001 ha realizzato l’ammitu insieme alla propria famiglia, in seguito della promessa fatta a San Giuseppe nel momento più grave della malattia. Molti ricordano ancora quel giorno, che fu per gli anziani il modo di rivivere un’antico rito a cui avevano assistito tante volte fin da piccoli e per i giovani, la scoperta di una tradizione che raramente avrebbero avuto modo di conoscere altrimenti. Le foto scattate quel giorno sono materiale storico preziosissimo oggi, perché ci permettono di avere un riferimento visivo che rimanda ad immagini antiche e accompagna il loro racconto. Anche Terina è stata coinvolta personalmente da bambina per l’ammitu, ma stavolta non per aver ricevuto una grazia, piuttosto per essere stata lei stessa quella “grazia”. Infatti, uno zio – fratello del padre – e la moglie, i quali non avevano potuto avere figli, chiesero ai genitori di Terina, che a quell’epoca aveva solo 20 mesi di età, di poterla accogliere a vivere in casa loro e lì farla crescere. I genitori accettarono alla condizione di effettuare una “prova” per capire come si sarebbe trovata la bambina, ma come racconta Terina commossa, l’amore immenso con cui la circondarono gli zii la rese felice di restare con loro. Per questo motivo dopo un paio d’anni dall’evento, lo zio volle ringraziare San Giuseppe, per lui e la moglie un vero miracolo, perché erano divenuti in qualche modo genitori nonostante la loro impossibilità materiale.
LA PREPARAZIONE A QUEL GIORNO IMPORTANTE: L’ALTARE DI SAN GIUSEPPE E I PANI ARTISTICI
Le famiglie delle contrade di Misiliscemi coinvolte nella preparazione dell’ammitu iniziavano a pianificare il da farsi molto tempo prima rispetto al giorno previsto che, se non ci fosse stata la processione del santo il 19 marzo si sarebbe svolto quel giorno, altrimenti sarebbe stato spostato alla domenica prima o alla successiva. Nel caso in cui più di una famiglia nella stessa contrada avesse “invitato i santi”, allora ci si sarebbe messi d’accordo per non far accavallare le date. Il primo passo da fare era sempre quello di trovare con largo anticipo “i tre santi“, solitamente per impersonare San Giuseppe si sceglieva un uomo anziano, per la Madonna una ragazzina e per Gesù, ovviamente un bambino. Per loro venivano cuciti gli abiti che avrebbero indossato quel giorno, prendendo a modello l’immagine classica dalla tradizione iconografica cristiana. Inoltre, a completare il costume di San Giuseppe si sarebbe aggiunto il bastone, sul quale sarebbe stato poi posto il fiore appena raccolto di una pianta spontanea chiamata Alcea rosea, volgarmente conosciuta come “Bastone di San Giuseppe”, arbusto che oggi sembra essere scomparso nelle zone di Misiliscemi.
Ma la la cosa più bella, laboriosa e artisticamente rilevante era la preparazione del luogo nel quale si sarebbe svolto l’ammitu. Un paio di settimane prima della festa veniva sgomberata la stanza più grande della casa e la si allestiva adornandola fino a trasformarla in una splendida scenografia teatrale. Alle pareti andavano appese diverse coperte in ciniglia riccamente decorate e ricamate, che per l’occasione arrivavano anche in prestito da parenti e vicine di casa. Sul fondo della stanza si edificava l’altare votivo, talvolta composto da una semplice tavola, altre da diversi ripiani; tutti i livelli venivano poi ricoperti di lini, pizzi, veli, tovaglie e fazzoletti ricamati, ovvero tutto ciò che faceva parte del corredo. Diverse erano le scenografie create, che andavano da una sorta di baldacchino, a quinte laterali, archi o portali realizzati con tralicci di legno ricoperti poi di alloro intrecciato e decorati con arance e limoni.
Sulla parete di fondo e al centro dell’altare, veniva sempre posto un quadro raffigurante San Giuseppe o la Sacra Famiglia – in quel caso si trattava solitamente del capezzale – oppure vi si collocava una statuetta del santo. La cosa più straordinaria erano senza alcun dubbio i pani artistici frutto del lavoro di tante donne, le quali collaboravano comunitariamente per giungere alla realizzazione di veri e propri gioielli che avrebbero contribuito all’opera finale. Donne in grado di creare piccoli e grandi manufatti, ognuno diverso dall’altro, modellati e composti con minuziosa maestria e meraviglioso gusto estetico, vere sculture prodotte da lavoratrici dei campi e massaie che, senza aver compiuto alcuno studio accademico ma semplicemente guidate dalla propria sensibilità ispirata dagli esempi di nonne e madri, con stupefacente maestria lavoravano insieme per la creazione di questi bellissimi pani realizzati impastando solo farina, acqua e olio. Una volta modellati, i pani venivano ulteriormente decorati inserendo qua e là chiodi di garofano – utilizzati anche per dare loro un profumo speziato – ed infine venivano spennellati usando l’uovo, in modo da renderne la superficie dorata al momento della cottura nel forno a legna di casa. Le forme di dimensioni più grandi venivano posizionate sull’altare, le più piccole attaccate alle stoffe e distribuite facendole pendere dalle coperte che già coprivano tutte le pareti. E immerse in quella scenografia, ogni sera tante donne si sarebbero riunite per recitare la novena a San Giuseppe fino a giungere al 19 marzo. L’altare votivo sarebbe poi rimasto aperto alle visite ancora per un mese dopo l’ammitu, anche perché il grande impegno messo per realizzarlo meritava di essere mostrato con grande orgoglio. Gli altari, oltre a dimostrare la devozione di un tempo, erano soprattutto l’espressione di una realtà contadina che, anche se in umili condizioni, era in grado di trarre il massimo della bellezza dal poco di cui disponeva.
LE FORME DEI PANI E LA LORO SIMBOLOGIA
I pani potevano essere suddivisi in due tipologie simboliche, la prima raffigurante elementi che rimandavano al mondo naturale e alla primavera, come ad esempio deliziosi cesti di fiori e frutti, spighe di grano, uva e foglie di vite, boccioli di rose e uccelli. La seconda serie si ispirava alla simbologia cristiana, con la raffigurazione di croci, colombe, pesci, pavoni, ostensori, scale, chiavi e attrezzi da lavoro del santo e ancora i monogrammi di Giuseppe, Maria e Gesù. Creazioni plastiche che vedevano intersecare e combinare minuscole forme e volumi, per arrivare ad ottenere delle sculture dall’effetto tridimensionale “ricamato”, un lavoro certosino che richiedeva molta pazienza, soprattutto per la creazione dei singoli elementi da utilizzare poi in seguito. Troviamo così piccole foglie realizzate in diverse varianti, tra cui quelle “pettinate”, le cui striature venivano create strisciando appunto i denti di un semplicissimo pettine sulla forma di impasto. E ancora la lavorazione della superfici utilizzando pinzette, piccole forbici e altri strumenti talvolta improvvisati per “pizzicare” ed ottenere così dei chiaroscuri sulle superfici, facendo si che il risultato finale li rendesse simili ad oggetti in ceramica. Ai tre ospiti per l’ammitu si sarebbero poi donati tre grandi pani decorati consistenti per Giuseppe in un bastone fiorito in ricordo della scelta di Dio che lo scelse come sposo di Maria, una palma per Maria a rievocare la pianta di datteri di cui si erano nutriti durante la fuga in Egitto ed infine, il cosiddetto “cucciddato” per Gesù, un pane a forma di ciambella come rappresentazione di Dio luce del mondo.
I PANI DI SAN GIUSEPPE OGGI: UNA RIEVOCAZIONE DEL PASSATO PER FARE MEMORIA DELLE TRADIZIONI
Fortunatamente la bellissima tradizione dei pani artistici è ancora oggi conservata, seppur a Misiliscemi non vengano più preparati in occasione del tradizionale ammitu molte donne amano realizzarli in casa e poi farli benedire e donarli ad amici e parenti. Anche nelle chiese del territorio gruppi di fedeli si riuniscono per diversi giorni, collaborando alla creazione di questi meravigliosi pezzi unici, tutti diversi fra loro e realizzati con una manualità artistica che queste donne hanno ereditato da mamme e nonne e che speriamo possa essere trasferita anche alle generazioni più giovani. Questi pani saranno poi benedetti dal sacerdote e distribuiti ai fedeli che parteciperanno alla processione del santo, perché è segno di devozione portarne uno a casa e conservarlo fino a che l’anno successivo non ne saranno realizzati di nuovi. La tradizione religiosa popolare vieta di buttare i pani benedetti “vecchi”, indica che per disfarsene si debba metterli in ammollo e una volta ridotti in poltiglia usati come mangime per gli uccelli o dispersi nella terra tra le piante.
LA PREPARAZIONE DELLE 99 PIETANZE
Come ci raccontano Pia e Terina, la famiglia che avrebbe ospitato l’ammitu poteva decidere di affrontare tutta la spesa per il pranzo in maniera autonoma, oppure aprire ad altri la possibilità di contribuire offrendo ingredienti e pietanze, ma ciò che contava era che i piatti da preparare e poi portare al pranzo, fossero sempre moltiplicati per tre. Dunque, i giorni prima rispetto a quando si sarebbe svolto l’ammitu erano caratterizzati da una grande e intensa collaborazione per la preparazione, così anche parenti e vicine si davano da fare in modo da raggiungere il numero minimo richiesto, che regola diffusa nel territorio di Misiliscemi vuole, dovesse essere di almeno 99 pietanze tutte diverse fra loro. Pia conserva ancora un minuscolo taccuino della madre, rovinato dal tempo e dall’uso, sul quale Tuzza aveva appuntato i nomi di alcuni cibi che andavano inclusi nel menù e come ricordano diverse anziane che da sempre hanno assistito all’evento, talvolta si raggiungevano addirittura le 120 portate.
LA PROCESSIONE VERSO CASA E LA “PARTE”
L’atteso giorno aveva inizio con una piccola processione a cui prendevano parte la famiglia ospitante, “i tre santi” e tutto il gruppo di vicini e parenti che avrebbero assistito all’evento. Tutti insieme ci si recava in chiesa per partecipare alla messa della mattina, finita la celebrazione ci si dirigeva verso la casa dove si sarebbe svolto l’ammitu. Lungo il percorso si doveva inscenare una sorta di performance che prevedeva la sosta presso due abitazioni prima di arrivare a destinazione, in entrambi i luoghi San Giuseppe doveva bussare alla porta con il bastone e dall’interno una voce doveva chiedere: “Cu è ddocu?” e lui rispondere: “Semu tri poviri pillirini chi vonnu fatta la carità!” e di nuovo dall’interno la voce replicare: “Cà unn’è funnacu e mancu lucanna, itivinni a n’autra banna!”. A questa frase di rifiuto si andava via e si procedeva oltre, giunti all’abitazione preposta per il pranzo, ancora per due volte si ripeteva la stessa scena-dialogo, ma stavolta era colui o colei che aveva fatto l’ammitu ad interagire dall’interno della casa. Ai due rifiuti la Sacra Famiglia fingeva di andare via e poi tornava a bussare, finché la terza ed ultima volta San Giuseppe variava la risposta dicendo: “Semu Gesù, Giuseppi e Maria!” e stavolta si spalancavano le porte dell’abitazione per accoglierli acclamando “Viva Gesù, Maria e Giuseppe!” e tutti i partecipanti in coro “Viva!“. Ma prima di far entrare “i tre santi” in casa, si recitava la cosiddetta “parte”, che consisteva in un dialogo fra San Giuseppe e chi lo aveva invitato e dopo ciò, il sacerdote benediceva l’altare e dunque tutti i pani.
IL LUNGO PRANZO SERVITO AI TRE “SANTI”
Fatti accomodare i tre ospiti, si donavano loro i pani e si procedeva facendoli disporre attorno ad una tavola apparecchiata, la regola voleva che non dovessero compiere alcuna azione, ma che venissero “serviti” in ogni cosa. Per prima cosa li si aiutava a lavare le mani e dopo ciò tre familiari, parenti o vicini di casa a turno e talvolta variando (ma sempre in trio), servivano le portate indossando un’asciugamani di fiandra che veniva appoggiata sulla spalla e legata al fianco utilizzando le frange. Per arrivare dalla cucina alla stanza dell’altare, i servitori dovevano compiere un largo giro scegliendo, quando possibile, la via più lunga per giungervi e talvolta addirittura uscendo fuori in giardino e rientrando in casa.
Dal menù che troviamo annotato sul taccuino di Tuzza e che riportiamo così com’è scritto, sappiamo che venivano servite, fra le altre cose: “arancio e zuccaro, cuscusu, pesci in umidu, pesci fritti, macheroni con salsa, pasta a brodo, ballottole, pasta con raviola, finocchio con l’ovo, carne a stufato, pesci d’uovo, minestra, carcocciuli a pigno, cotoletta, arancini di riso” – e ancora – “fragoli, noci, datteri, crema, biscotti, pasticini, cannola, cassata, cubaida, marmellata, spinci, cassatelle”. Considerando che tutto doveva essere preparato almeno per tre persone e moltiplicando il numero dei piatti, è possibile comprendere l’enorme quantità di cibo a disposizione. Ai tre commensali veniva servito un solo boccone, altrimenti ci sarebbe stato il rischio per Gesù di non riuscire ad arrivare alla fine del pranzo, perché essendo un bambino si sarebbe saziato presto con l’impossibilità di arrivare al termine. Perciò, il cibo extra veniva in parte donato ai tre invitati che lo avrebbero portato alle loro famiglie ed in parte fatto assaggiare ai presenti. Così, molti avevano l’opportunità di deliziarsi di tanti piatti delle feste, ricchi di sapori e contenenti anche la carne, a differenza di quelli più semplici consumati quotidianamente e spesso composti di ortaggi e verdure.
Durante lo svolgimento del pranzo di tanto in tanto qualcuno recitava una filastrocca una preghiera o una poesia dedicata a San Giuseppe, si eseguivano dei canti e all’improvviso si acclamava “Viva Gesù, Maria e Giuseppe!” e tutti rispondevano “Viva!”. L’ammitu terminava così dopo ore e alla fine, insieme al cibo si donava ai tre poveri il denaro delle offerte fatte raccolte in un’apposita cassetta preparata per l’occasione, se poi si erano realizzati dei pani in più rispetto a quelli inseriti all’interno della scenografia, allora la gente avrebbe potuto portarli via e con loro la benedizione di quel giorno.
Oggi a Misiliscemi l’ammitu è andato perso, sia perché gli usi sono cambiati, ma anche perché le comunità si sono trasformate e con loro anche tanti aspetti legati alla devozione e alle manifestazioni religiose di un tempo. Così, di questa antica tradizione restano alcuni altari votivi realizzati talvolta presso le chiese delle contrade, in ricordo di un passato importante per la fede di tanti abitanti. Uomini e donne la cui vita e sopravvivenza era strettamente connessa al lavoro della terra e al buon raccolto dei suoi frutti, comunità rurali, che molto spesso vivevano di stenti e per questo legate in maniera forte alla figura di San Giuseppe. La devozione di tante famiglie del territorio per questo santo risiede dunque nel fatto che per secoli contadini, braccianti e anche i proprietari terrieri abbiano riposto nel Patriarca le loro speranze per ottenere prosperità e abbondanza, replicando ciò che gli antichi popoli facevano volgendosi a Demetra. Rievocare un rito della fede popolare come quello qui raccontato, non pone dubbi sulla ragione della scelta di San Giuseppe quale patrono del Comune di Misiliscemi, protettore di tutti coloro che sono stati nel tempo i fondatori delle contrade e che attraverso questi bellissimi pani ancora oggi continuano a vivere.
Hanno collaborato: Pia e Terina Adamo, Salvatore Giliberti, Baldo Palermo, Lina Novara, Enzo Di Stefano, Comunità Parrocchiale San Giuseppe di Palma
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